I congressi dei naturalisti italiani fra scienza e politica. Per i 150 anni dell'Unità  d'Italia
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1843 Lucca

«Il Congresso di Lucca fu piccino, ma bonino. Certo scegliere una città così piccola per un’adunanza tanto solenne è voler mettere l’asino a cavallo; pure quei Lucchesi si arrabattarono tanto da levarne le gambe meglio di quel che si sarebbe imaginato». Relazionava così ad un’amica Giuseppe Giusti, che a quel congresso aveva partecipato. In prima battuta la scelta della città eletta a sede della quinta riunione durante le sedute fiorentine era però caduta su Modena, ma il «tirannetto da quattordici al duetto» (come il Giusti aveva definito a suo tempo il duca Francesco IV, lo storico nemico di qualsiasi adunanza, scientifica e no, che aveva mandato alla forca Ciro Menotti) aveva negato il permesso. Lo stesso aveva fatto Maria Luisa duchessa di Parma, adducendo a pretesto con qualcuno la propria assenza estiva e con qualcun altro affari interni al Ducato, e vanificando così anche la seconda scelta. Lucca fu perciò, a detta del suo stesso duca Carlo Lodovico di Borbone, che acconsentì nonostante il parere contrario dei ministri, «un pis-aller», il ripiego del ripiego. Un grande dispiegamento di forze di polizia fu comunque attivo lungo tutta la durata dei lavori.

La capitale di un minuscolo Stato periferico non attirò un altissimo numero di scienziati, e dal 15 al 30 settembre intervennero solo in 496. Presidente generale fu il conte Antonio Mazzarosa, letterato ed erudito locale, Presidente del Consiglio di Stato in certo modo vicino alla cerchia toscana dei Ridolfi, dei Capponi e dei Vieusseux. Segretario generale fu l’anatomista Luigi Pacini. Presenze non nuove a capo delle sezioni di Agronomia e tecnologia; Geologia, mineralogia e geografia; Zoologia, anatomia comparata e fisiologia; Botanica e fisiologia vegetale; Fisica, chimica e matematica; Medicina. Qualche nome di spicco in sala, come il giurista e filosofo del diritto Giovanni Carmignani, Giuseppe La Farina inviato dall’Accademia Peloritana di Messina, che già si era distinto a Firenze, Francesco Dall’Ongaro, il giornalista Enrico Valtancoli (Montazio), il matematico Carl Jacobi, il chirurgo Marie Augustin Adorno de Tscharner.

Dopo un intervento sul sistema carcerario con cui aveva denunciato i maltrattamenti dei prigionieri senza trattenersi dal citare Silvio Pellico e Federico Confalonieri, il medico torinese Michele Griffa fu radiato ed invitato a lasciare il Ducato. Una lettera anonima trovata sul tavolo della presidenza commentava: «la presenza di un uomo non può esser tollerata in un congresso di eunuchi». Questo dev’essere stato uno dei rari guizzi di vita in una unione (come la si chiamò negli Atti) tutto sommato sottotono, anche nella mondanità. «Il Duca – racconta sempre il Giusti – appena sentì da lontano l'alito dei dotti, se la batté a Dresda, non per contrarietà a queste cose, ma perché bollendogli la pentola a mala pena per sé e per i suoi, sentiva, appetto agli sciali di Toscana, di non poterne uscire a onore». E non fu solo un problema finanziario. «L'Arcivescovo – prosegue – scappò e si rintanò come un toro salvatico, perché mi dicono che se stesse in lui, farebbe una santa baldoria anco dell'alfabeto. Ora a lumi spenti, su’ Altezza è sempre fuori a bighellonare, l'arcivescovo è rientrato e credo che stia sul punto d'adunare il Sinodo Diocesano per ribenedire Lucca infettata di scienza».