Nel settembre del 1862 Siena ebbe il suo agognato congresso, a distanza di ben quattordici anni da quello rinviato nel 1848. Francesco Puccinotti, stabilitosi ormai da molti anni in Toscana ed eletto senatore del Regno d'Italia, ne fu il presidente, coadiuvato dai segretari Giovanni Campani, direttore del Museo di storia naturale dell'Accademia dei Fisiocritici, delegato alla classe di Scienze fisiche, matematiche e naturali, e Valerio Castellini, giurista e professore di istituzioni civili, per la classe di scienze morali. Fra i presidenti e i segretari delle sezioni Filippo Luigi Polidori e Marco Tabarrini per Archeologia e storia, Graziadio Ascoli e Fausto Lasinio per Filologia e linguistica, Giuseppe Sacchi per Economia politica e statistica, Ferdinando Andreucci per Filosofia e legislazione, Enrico Mayer per Pedagogia, Gilberto Govi e Pietro Blaserna per Fisica e matematica, Egidio Pollacci per Chimica e farmaceutica, Teodoro Caruel per Botanica, Oronzo Gabriele Costa per Zoologia, Benedetto Trompeo per Medicina, Camillo Versari per Chirurgia, Cosimo Ridolfi, al suo ultimo congresso (morirà pochi anni dopo) per Agronomia. Fra i 225 partecipanti moltissimi da Siena e dintorni, pochi forestieri e qualche "nome", come Francesco Corazzini, Francesco Dall'Ongaro, Francesco Protonotari, Pietro Siciliani, allora professore al liceo di Firenze, Giovan Pietro Vieusseux, Pasquale Villari. Desolante l'assenza pressoché totale di stranieri.
Oltre a questioni specifiche affrontate nelle singole sezioni, si parlò del riordinamento degli studi farmaceutici, dell'influenza sul bene pubblico delle scuole normali classiche, sulla proposta di istituire cattedre di storia d'Italia nei ginnasi e nei licei. Ligi al nuovo regolamento, non ci si perse in svaghi e in trastulli salottieri. Immancabile comunque una nuova guida di Siena e l'inaugurazione di un monumento a Sallustio Bandini, eletto a gloria rappresentativa della città, nella sala dell'Accademia dei Fisiocritici.
Inutile dire che niente era più come prima, e la delusione serpeggiò. Lo Stato unitario si sarebbe dovuto impegnare per cambiare le sorti della scienza italiana, che soffriva da lungo tempo per la carenza cronica di strutture e investimenti, sistematicamente denunciata dagli addetti ai lavori durante tutti i congressi, conseguenza (e poi causa a sua volta) dell'arretratezza del paese dovuta a treni perduti ormai da diversi secoli. «Quando si pubblicò in Inghilterra l'opera dei Principii - aveva precocemente capito Paolo Frisi - il Viviani in Firenze e l'Angeli in Padova sostenevano tutto l'onore della geometria italiana. Ma accostumati com'erano già da tant'anni ad un altro genere di ricerche e di metodi, non erano quasi più in tempo di seguitare quelli del Newton». Nell'affrontare il problema, però, la nuova Italia non aveva più dalla sua né gli entusiasmi risorgimentali, né la forza di quell'idea illuministica di una scienza educatrice e civilizzatrice dell'umanità che con la rivoluzione francese si era intrisa di stimoli politici e sociali e che, mirando alla creazione di una comunità scientifica internazionale, era stata la linfa vitale delle riunioni naturalistiche. E all'epoca ci se ne accorse subito. Il libraio e tipografo senese Giuseppe Porri, attivo nell'organizzazione del congresso rinviato del 1848, si spiegava così la scarsa affluenza di pubblico alla riunione del 1862, dalla cui preparazione si era mantenuto distante: «ogni frutto ha la sua stagione e quella pe' congressi forse non tornerà più».