Teti ed Efesto, Pompei
Teti ed Efesto, Pompei

L'ottica si sviluppò nell'antichità attraverso due principali scuole di pensiero: quella secondo la quale la visione derivava dalle immagini dei corpi impresse sull'occhio, e quella che sosteneva, al contrario, che dall'occhio partissero dei raggi che andavano a colpire gli oggetti. Prendendo spunto da questa seconda ipotesi, Euclide propose un modello geometrico del meccanismo della visione che è rimasto sostanzialmente inalterato fino ai giorni nostri.
I Romani consideravano parte dell'ottica sia la scienza che studia la rifrazione dei raggi nei corpi densi, denominata diottrica, sia la catottrica, cioè lo studio dei raggi riflessi da corpi lucidi come gli specchi.
Derivata dall'ottica era anche l'applicazione delle leggi della visione all'architettura e alle arti figurative.

Nel mondo antico si contrapposero due teorie ottiche: una supponeva che le immagini fossero emesse dai corpi, mentre secondo l’altra i raggi visivi, uscendo dall’occhio, colpivano la superficie degli oggetti. Partendo da questa seconda ipotesi, Euclide elaborò un metodo geometrico per applicare le leggi dell’ottica alla misurazione delle distanze.
L’ottica classica si articolava nella diottrica, che studia i fenomeni di rifrazione, come l’arcobaleno e le lenti ustorie, e la catottrica, che si occupa invece dei fenomeni di riflessione, come la formazione delle immagini negli specchi piani, curvi e poliedrici. Dalla catottrica derivavano varie applicazioni, sia ludiche che militari, come gli specchi teatrali di Erone, gli specchi ustori di Archimede e i leggendari specchi telescopici del Faro di Alessandria e del Colosso di Rodi. Dalla catottrica dipendeva anche la diffusa pratica di leggere il futuro nelle immagini riflesse sugli scudi e sulle coppe d’argento.*

Dal V secolo avanti Cristo l’applicazione delle leggi della visione all’architettura e alle arti figurative venne disciplinata da una sezione dell’ottica, detta scenografia. Adottando una serie di accorgimenti ottici, descritti anche da Vitruvio,* architetti e scultori cercarono di rendere le opere visivamente armoniche. Appartenevano alla scenografia anche le regole della rappresentazione prospettica, derivate dalla decorazione teatrale ellenistica. Secondo Vitruvio, queste regole consistevano nel definire il centro della rappresentazione, corrispondente all’occhio dello spettatore, verso il quale tutte le linee del disegno dovevano convergere. Da questa tradizione teatrale derivavano le prospettive architettoniche della pittura romana che decorano le maggiori ville pompeiane: dalla Villa dei Misteri a quella di Boscoreale, alla Villa di Poppea a Oplontis.

Secondo la prospettiva moderna, le linee orientate in profondità devono convergere verso un punto di fuga corrispondente all’occhio dell’osservatore. Per questo punto passa la linea dell’orizzonte, sulla quale si trova anche il punto di distanza, che regola la convergenza delle linee orientate a 45 gradi. Le intersezioni tra queste linee e quelle convergenti nel punto principale indicano la posizione delle linee parallele.
Le prospettive pompeiane rispettano queste regole solo per la convergenza delle linee orientate in profondità. Raramente l’intera composizione risulta governata da un unico punto di fuga; più spesso si fa ricorso a vari punti di fuga, situati ad altezze diverse sull’asse centrale.
Non si può, d’altro canto, stabilire se gli antichi conoscessero l’uso del punto di distanza. La costante frontalità delle prospettive pompeiane fa presumere che i pittori realizzassero dapprima un semplice prospetto, successivamente sviluppato in prospettiva attraverso la proiezione dal centro di tutti i suoi punti in avanti e verso il fondo.